Il bambino dalla milza di legno di Antonello Monni
Recensione di Paolo Maccioni
Questo
suo primo libro ha delle particolarità che lo distinguono da tutti gli altri
libri.
Innanzitutto per il suo linguaggio, infatti
l’autore usa contemporaneamente due lingue, il sardo e l’italiano in cui la
parte scritta in italiano è prevalente ma ciò che è scritto in sardo, poi
tradotto in italiano, è concettualmente più importante.
Inoltre
è particolare anche per il suo contenuto. Si tratta di vicende che
sostanzialmente riguardano gli anni
dell’infanzia che Antonello Monni ha trascorso soprattutto a Oliena, nella casa padronale della sua famiglia,
e quindi si tratta di un libro in larga parte autobiografico, ma relativo solo
a quegli anni e a quei luoghi a lui congeniali rappresentati dal territorio che
circonda il paese.
Poi
è particolare per i suoi personaggi che sono tantissimi e speciali, e sui quali
alcuni emergono e si impongono alla attenzione del lettore.
Il
libro consiste in una serie di raffigurazioni che inserite nel territorio
prediletto dall’autore illustrano come
splendidi quadri situazioni che Monni ha vissuto nella sua infanzia e dove la
natura nel suo complesso di uomini, animali, alberi, monti e tutto il creato
che vi è intorno, ha un posto
assolutamente preminente.
Alla
parola raffigurazione potrei aggiungere anche un aggettivo, che è :musicale. Si tratta di quadri musicali
cioè. Si, innanzitutto perché il parlare del sardo logudorese, così come è
scritto nel libro e come sembra proprio di sentirlo dalla viva voce di chi
pronuncia le parole, hanno una cadenza melodiosa.
Inoltre
vi sono tanti momenti in cui dalle parole fuoriesce l’armonia dei luoghi che vengono descritti:
così sentiamo chiocciare le galline, frusciare il bosco, cinguettare gli
uccelli, sentiamo il respiro della volpe, il cadere delle gocce d’acqua dalla
sorgente, il nitrire dei cavalli e così via.
Ora,
è molto facile cadere nel retorico nel dire queste cose, e poi, a dire la
verità, non tutto nel libro è così idilliaco. Vi sono aspetti che fanno
ricordare la miseria che per tanto tempo ha regnato incontrastata in quei
luoghi come in tanti altri della Sardegna. Come la descrizione della fame del
contadino nel seguente brano:
La fame del contadino
lascia spazio alla speranza e concede lunghe tregue, ma deve fidarsi della
terra, del vento, del fuoco, dell’acqua, del sole, del gelo, degli uccelli,
delle cavallette, dei vicini, delle capre, dei padroni, del suo lavoro, della
buona sorte.
I nostri campi non sono
fertili e ubertose pianure, ma radure sassose, intricate da radici profonde di
macchie di lentischio e olivastro, antiche come la sete di secoli, dure come le
pietre che devono spezzare per trovare l’acqua. Con quelle radici deve lottare
il contadino per sopravvivere.
A quelle radici forti,
col picco, la scure, le mani, la vanga, deve sostituire i semi del grano e
dell’orzo; a novembre, se piove.
Attende altra pioggia,
ma è troppa, scrosciante, porta via in sabbia la terra ed i semi.
Cessa la pioggia.
Rispera ed attende
ancora, e guarda il verde leggero del grano, dal basso che sembra più verde e
conta le spighe che già vede mature, e ci crede e ci spera.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
La neve. La neve e la brina; se è troppa è la
fame.
A marzo ed aprile è una
lotta con l'erba: è più forte del grano; è più forte, ed è tanta; con radici
tenaci e deve zappare ogni solco e ogni spiga.
Se piove rispera.
Il sole. Il vento piega le spighe verdi, e i
papaveri rossi; è bello vederli rossi tra il verde.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
...Lámpanas... Tribulas... Giugno ... Luglio
...
Ha circondato il suo
campo di pietre e di spine; lo ha protetto dal morso di vacche e maiali; ha
ancora paura del fuoco.
A casa ha tre figli e una giovane moglie. Miete
col sole di luglio coi figli bambini e la giovane moglie.
Il piccoloAntonello iniziava appena la sua
carriera scolastica e agli insegnamenti della scuola aggiungeva quelli che gli
venivano direttamente dal contatto con la natura. Naturalmente i genitori e
tutto il mondo di persone che ruotavano intorno a lui e che a lui badavano
erano attenti a scoprire le sue inclinazioni per poter poi indirizzarne gli
studi che avrebbero costituito la sua preparazione alla vita. Ma dovevano fare
i conti con una naturale e per loro quasi incomprensibile predisposizione di
Monni per la vita animale.
Infatti,
nel mondo del bambino assumevano un posto preponderante gli animali che lui
osservava con curiosità sempre crescente. Gli interessava molto di più il
belare delle capre oppure i dispetti che a turno si facevano tra loro le
cavalle, che non, a scuola, il fare le aste forzando innaturalmente la mano
destra dato che lui era mancino e, a quei tempi, quel fatto veniva considerato
un difetto da correggere.
Lui
si sentiva felice quando poteva incontrare nel suo paradiso speciale di Corte
‘e Josso la cavalla Isabella, la capra Galatea e Bitteré la capretta nata da
Galatea.
Crescendo
era l’esterno ciò che maggiormente attirava Antonello, ciò che vi era sulle
montagne, nelle foreste, chi vi abitava, come era la vita che vi si svolgeva.
Tutte curiosità che via via troveranno risposte ora semplici ora complicate
spiegate da personaggi che saranno indimenticabili.
Uno
di questi si chiama Lussuglieddu. Vi sono momenti in cui le parole e gli atti
che compie questo piccolo servo pastore dimostrano una saggezza e una
sensibilità fuori dal comune considerando anche che si tratta di un
semplicissimo pastorello di capre di appena otto o nove anni.
Con
lui Antonello lega subito, dal momento in cui Lussuglieddu lo invita un giorno
a seguirlo insieme al gregge che governava.
Ajo’
venis a monte? E lui gli risponde
Emmo
benzo, si vengo
Da quel
momento diventano amici inseparabili trasferendosi l’un con l’altro esperienze
ed emozioni.
Antonello
andò con lui al monte, e ne rimase affascinato. La compagnia di Lussuglieddu fu
estremamente importante. La sua maturità, il suo comportamento, la sua
intelligenza, sono emblematici di quell’ambiente pastorale che ha radici tanto
profonde che ancora oggi non è scomparso del tutto. È un ambiente che fa
dell’uomo pastore barbaricino il re del creato, dove tutto discende dal monte e
il monte è il centro dell’universo e dove oltre il monte c’è solo
periferia. Caratteristica è a questo
proposito la considerazione di Gargagiu, un altro personaggio del libro di cui
parleremo tra poco, che considerava tutta la zona di Castiadas né più né meno
che semplici territori destinati alla transumanza dei pastori Olianesi.
E
Lussuglieddu non fa eccezione alla regola: nel suo comportamento e nelle parole
che dice, nella consapevolezza della situazione sua nei confronti di Antonello.
vi è qualche cosa di superiore, di nobile, di regale.
Il
cuore e la mente di Monni è aperta a tutte le esperienze che gli può dare la campagna montagnosa di Oliena, la vita piena
che vi si svolge al suo interno, i suoi infiniti personaggi che la animano.
Tra
questi vi è anche Pompeo, il bambino idropico che ha dato origine al titolo del
libro e che insieme ai suoi genitori è protagonista di una storia intrisa di
sentimenti delicati, ironici, tragici e comici.
Che, da sola, potrebbe riempire le pagine di un intero romanzo.
Un
personaggio che però assurge nel libro al rango dei principali è Gargagiu.
Descriverlo
non si può perché lo ha fatto talmente bene Antonello Monni che dire qualche
cosa di più sarebbe inutile.
Era come un grande
albero in una foresta: da bambino ti sembra grandissimo e vecchio, poi, dopo
molti anni lo ritrovi ed è uguale, sei tu ora molto più vecchio; lui, l'albero,
è come Gargagiu. Solo che Gargagiu era un uomo, un uomo di muschio però.
Ero vicino al paese,
lungo il sentiero che da Masiloghi sale a Sèttile; …e ad un tratto Gargagiu
venne fuori da un cespuglio, senza il minimo rumore di foglie smosse, come un
Gatto.…
Si sedette, non molto
vicino, con il vecchio zaino militare, il
cappotto grigio-verde della prima guerra, le fasce, i calzoni stretti
alle ginocchia, il colore del muschio.…
Lo vidi come era, ma a casa,
nel cortile vicino al portone non ci avevo badato. Era come ...nel film di
“Addio alle Armi”, direi ora. Ma erano passati almeno trent'anni da quella
guerra, e lui vestiva ancora così.
Il
libro è composto di tante trame: tutte le esperienze che il bambino ha fatto
negli anni della sua infanzia diventano avventure di tutti i generi, sia di
persone come quella di una certa Tzia Podda e i suoi mattoni fattti coi piedi,
sia di animali come quella di un perniciotto volato inutilmente verso la
libertà, o anche quelle di semplici cose
come le grotte in cui vi erano celati i misteri più impensati, o tante altre
che è impossibile dirle tutte.
In
questo libro Monni ci fa ritornare a vivere le origini del nostro mondo, quando gli uomini vestivano di pelli e
si cibavano di ciò che cacciavano. In tutto l’universo variopinto da lui
descritto assaporiamo il senso della umanità vera, quella che accomuna ogni
essere vivente, uomo o animale che sia, e che è la consapevolezza del proprio
breve destino, e la rassegnazione per la propria sorte che non si pretende di
cambiare, ma viene accettata con serenità e umiltà.