Il libro storie di casa Balboa, storie di ordinario
disordine, è un libro che lascia l’amaro in bocca. La considerazione generale
che si può trarre da questo libro è che l’essere umano non è che uno fra i tanti esseri di un universo
caotico che non ha né capo né coda e che l’unica sua prerogativa è quella di riprodursi utilizzando il corpo
della donna per inseminarla. Questo istinto, comune a tutti gli organismi
viventi, è stato dall’uomo perfezionato a suo uso e consumo in modo da
trasformarlo in piacere. Finchè si può soddisfare questo piacere la vita ha un
senso. Dopo no.
Fatta questa premessa ne discendono tanti corollari che
servono a capire il libro di Mario Rocchi.
Infatti il libro non ha una trama come la si intende
comunemente, e cioè un principio e una fine e dove in mezzo è raccontata una
storia. È invece una sequenza di episodi, tenuti insieme da un filo
rappresentato da una famiglia disunita e litigiosa, che procede come se fosse
una antologia di racconti, di piccole avventure, di barzellette, di squarci di
vita cittadina, dove Lucca domina la scena, di riflessioni di ogni genere e il
tutto suddiviso non già in capitoli, ma intervallati dalla presenza del cane Otto,
considerato al livello di umano, e che, insieme ai commenti sul suo comportamento
e ai dialoghi tra lui e il suo padrone, costituisce una delle parti più
interessanti di tutto il libro.
Quello che mi mancava
era Otto. Il suo affetto il suo amore. Era sicuramente sdraiato in camera mia
ad aspettarmi. Chi è che disse che il cane è una macchina per amare? Aveva
ragione. Anche tu fossi una persona perversa, quando il cane ti si affeziona,
non mollerà mai, soffrirà se maltrattato, ma non verrà mai meno al suo affetto,
al suo amore. Si dice che chi ama gli animali nasconde un profondo disprezzo
per l’umanità. È probabile anche se io questo disprezzo non mi sembra di
nasconderlo troppo.
Nel libro appaiono evidenti la natura libertaria del suo
autore, la sua miscredenza nei confronti della religione le motivazioni
unilaterali che lo ispirano ( la femmina, ma solo alcune parti di essa ben
definite) e il senso di ineluttabile casualità che attribuisce all’esistenza.
Tutte caratteristiche che si rispecchiano nell’andamento della famiglia
descritta nel libro, con tutti i difetti, i problemi le angustie che comporta
una vita costruita sul maledetto lavoro e sui pochi piaceri (uno e sempre lo
stesso) e in cui il protagonista, pur essendo il capofamiglia, di fatto è un
semplice membro della stessa.
Marco Rocchi usa un linguaggio forte, infarcito di parolacce,
sguaiato come può esserlo un pescivendolo al mercato, ma non perché non conosce
il vocabolario della lingua italiana usando il quale potrebbe sostituire forse
anche più efficacemente quelle parole,
ma perché queste messe in bocca ai suoi personaggi o all’io narrante
sintetizzano al massimo i concetti, rendendoli immediatamente percepibili da
chi legge. E anche per pigrizia: perché infatti perdere tempo e lambiccarsi il
cervello per descrivere una situazione di noia
o di disagio o di fastidio nei confronti di una persona o di un fatto o
di un cosa verso la quale possono usarsi espressioni diverse a seconda delle
emozioni, o degli umori o delle situazioni, quando basta dire semplicemente “mi
ha rotto il c….” per esprimere ciò che intendeva dire? Lui stesso, nella biografia
che siamo andati a spulciare dal suo blog, afferma che scrive in fretta e che
scrivere non solo lo diverte, ma gli serve come seduta psicanalitica. La sua
scrittura è dunque quella di chi sviscera tutto se stesso, e lo fa con piacere
e, ad essere un poco volgari, termine che lui ritiene inventato
dall’aristocrazia, lo fa con la stessa
soddisfazione dell’esaudimento di un bisogno corporale.
Il libro a tratti è divertente, a tratti surreale, a tratti
umano, a tratti amaro, sempre sboccato,
sempre irritante, ma arrivi alla fine e non ti accorgi di essa. Rimane l’amaro.
Paolo Maccioni 1 maggio 2013