Recensione di Paolo Maccioni per Abel Book
Il romanzo di Matteo Gennari è
distribuito in duecento pagine e cinquantotto capitoli, e in ciascuno dei
capitoli credo vi siano almeno due o tre funerali per cui il romanzo di Matteo
Gennari potrebbe passare alla storia per il gran numero di morti implicati, che a conti fatti costituirebbero un numero impressionante e, a ben guardare, soltanto raccontando le generalità dei defunti
seguiti da una breve necrologia, potrebbero esaurire da soli lo spazio
disponibile per qualunque altro tipo di scrittura.
Ma non è così e Matteo Gennari,
se passerà alla storia, come gli auguro
di cuore, non sarà per questo motivo perché nonostante la premessa egli non si
limita a raccontare la necrologia dei defunti, tuttaltro. Ne interpreta
invece la vita e che vita!
Diciamo in poche parole quello di
cui stiamo parlando in modo che il lettore trovi qualche corrispondenza con ciò
che scoprirà poi scritto nelle pagine del romanzo: la vicenda si inspira alla
vita di una famiglia che da generazioni trae il proprio sostentamento materiale
dall’esercizio di agenzie funebri. Vi è un padre, una madre, una figlia un’altra figlia, un figlio e una
nonna che si confrontano con l’esistenza del prossimo, e fin qui è tutto normale anche se la loro vita
normale non lo è proprio a giudicare da certi dialoghi del tipo di quello che
segue: “perché mi hai sedotto? Ricordi
Edgardo, ricordi quando abbiamo fatto l’amore al cimitero di notte sulla lapide
di un giovane appena morto di cancro, ricordi quella volta che ci siamo chiusi
dentro una bara e siamo rimasti così, uniti come in un abbraccio eterno, e poi
tu hai goduto dentro di me e io ho abortito per la prima volta?”… Dialoghi
e situazioni espressi con crudezza a volte anche esagerata che potrebbero
confondersi con una sorta di sordida blasfemia ma che trovano poi in brani come
quello che segue una dolcezza che si esprime con la stessa semplicità di
linguaggio: Costanza le strinse la mano,
cosi rugosa e saggia. Ricordava quando l'aveva portata al mare con quella sua vestaglia
da cucina, la nonna non si era passata la crema solare e le si era formata una
bolla purulenta dietro al collo e lei gliela osservava, le aveva chiesto come
adesso, "Stai bene nonna". e lei come adesso aveva risposto.
"Sto meglio", "Dio, se le
concedi altri dieci anni di vita ti prometto che dedicherò i miei giorni a
te" disse ad alta voce credendo di poter ingannare il creatore coi suoi
giochetti. "Ciao adesso", disse la Pierina. lei si allontanò cercando
di fare il minore rumore possibile. ma un ventaccio sbatte le persiane che s'aprirono
di colpo inondando la stanza di luce. Costanza le chiuse con forza. poi
s'avvicinò alla nonna per sincerarsi che stesse dormendo, ma non stava
dormendo.
Le avventure della famiglia sono
infinite e le vicende dei personaggi si intrecciano tra loro in una girandola
di situazioni a tinte forti di tipo sentimentale, sessuale, familiare, impregnate di quell’ambiente funerario che fa da sfondo e pervade tutto il
romanzo. Ma anche qui è abbastanza normale, e
ci viene da constatare l’originalità del racconto che appunto si svolge tra
bare, funerali e morte sempre in agguato, senza tuttavia creare nel lettore il
senso di fastidio che l’argomento potrebbe suscitare.
Ciò che invece si impone nel
romanzo come del tutto originale è la presenza del subnormale raccontato però
come una novelletta. La presenza di spiriti che accompagnano la nostra
esistenza e che ci accompagnano nel corso di nostri anni fino alla morte ed
anche oltre. E non è Matteo Gennari a predicarcelo, ma è un simpatico
personaggio che risponde al nome di Bartolomeo la cui la presenza guida la regia
di tutto il libro e ci fa pensare, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, agli altri mondi dell’aldilà.
Matteo Gennari si distacca da
tanti scrittori di oggi, afflitti da una
certa monotona ripetizione di trame e di situazioni che hanno più o meno tutte
lo stesso fondamento e il suo estro si nutre di temi non consueti. Inoltre usa un
simpatico linguaggio con il quale riesce a descrivere con leggerezza anche cose
che leggere non sono.
Paolo Maccioni
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