mercoledì 1 maggio 2013

Casa Balboa di Mario Rocchi - recensione di Paolo Maccioni per Abel Book




Il libro storie di casa Balboa, storie di ordinario disordine, è un libro che lascia l’amaro in bocca. La considerazione generale che si può trarre da questo libro è che l’essere umano  non è che uno fra i tanti esseri di un universo caotico che non ha né capo né coda e che l’unica sua prerogativa è  quella di riprodursi utilizzando il corpo della donna per inseminarla. Questo istinto, comune a tutti gli organismi viventi, è stato dall’uomo perfezionato a suo uso e consumo in modo da trasformarlo in piacere. Finchè si può soddisfare questo piacere la vita ha un senso.  Dopo no.

Fatta questa premessa ne discendono tanti corollari che servono a capire il libro di Mario Rocchi.
Infatti il libro non ha una trama come la si intende comunemente, e cioè un principio e una fine e dove in mezzo è raccontata una storia. È invece una sequenza di episodi, tenuti insieme da un filo rappresentato da una famiglia disunita e litigiosa, che procede come se fosse una antologia di racconti, di piccole avventure, di barzellette, di squarci di vita cittadina, dove Lucca domina la scena, di riflessioni di ogni genere e il tutto suddiviso non già in capitoli, ma intervallati dalla presenza del cane Otto, considerato al livello di umano, e che, insieme ai commenti sul suo comportamento e ai dialoghi tra lui e il suo padrone, costituisce una delle parti più interessanti di tutto il libro.
Quello che mi mancava era Otto. Il suo affetto il suo amore. Era sicuramente sdraiato in camera mia ad aspettarmi. Chi è che disse che il cane è una macchina per amare? Aveva ragione. Anche tu fossi una persona perversa, quando il cane ti si affeziona, non mollerà mai, soffrirà se maltrattato, ma non verrà mai meno al suo affetto, al suo amore. Si dice che chi ama gli animali nasconde un profondo disprezzo per l’umanità. È probabile anche se io questo disprezzo non mi sembra di nasconderlo troppo.
Nel libro appaiono evidenti la natura libertaria del suo autore, la sua miscredenza nei confronti della religione le motivazioni unilaterali che lo ispirano ( la femmina, ma solo alcune parti di essa ben definite) e il senso di ineluttabile casualità che attribuisce all’esistenza. Tutte caratteristiche che si rispecchiano nell’andamento della famiglia descritta nel libro, con tutti i difetti, i problemi le angustie che comporta una vita costruita sul maledetto lavoro e sui pochi piaceri (uno e sempre lo stesso) e in cui il protagonista, pur essendo il capofamiglia, di fatto è un semplice membro della stessa.
Marco Rocchi usa un linguaggio forte, infarcito di parolacce, sguaiato come può esserlo un pescivendolo al mercato, ma non perché non conosce il vocabolario della lingua italiana usando il quale potrebbe sostituire forse anche più efficacemente quelle parole,  ma perché queste messe in bocca ai suoi personaggi o all’io narrante sintetizzano al massimo i concetti, rendendoli immediatamente percepibili da chi legge. E anche per pigrizia: perché infatti perdere tempo e lambiccarsi il cervello per descrivere una situazione di noia  o di disagio o di fastidio nei confronti di una persona o di un fatto o di un cosa verso la quale possono usarsi espressioni diverse a seconda delle emozioni, o degli umori o delle situazioni, quando basta dire semplicemente “mi ha rotto il c….” per esprimere ciò che intendeva dire? Lui stesso, nella biografia che siamo andati a spulciare dal suo blog, afferma che scrive in fretta e che scrivere non solo lo diverte, ma gli serve come seduta psicanalitica. La sua scrittura è dunque quella di chi sviscera tutto se stesso, e lo fa con piacere e, ad essere un poco volgari, termine che lui ritiene inventato dall’aristocrazia,  lo fa con la stessa soddisfazione dell’esaudimento di un bisogno corporale.
Il libro a tratti è divertente, a tratti surreale, a tratti umano, a tratti amaro,  sempre sboccato, sempre irritante, ma arrivi alla fine e non ti accorgi di essa. Rimane l’amaro.
Paolo Maccioni 1 maggio 2013 

venerdì 15 febbraio 2013

Messi d'oro sulla collina di Vincenzo Mereu





Recensione di “Messi d’oro sulla collina” di Vincenzo Mereu

di Paolo Maccioni

( Presentato alla Biblioteca di Flumini per Itamicontas, giovedì 17 gennaio 2013)

Nelle note contenute nel libro è scritto: Vincenzo Mereu, insegnante elementare e direttore didattico, scrive fiabe, poesie e romanzi. Trae le sue ispirazioni dalla bellezza della natura e dai grandi valori dell’uomo. Dello stesso autore il libro per ragazzi “il tacchino Glù Glù! Pupillo e Mandorlina.
Posso aggiungere che inoltre Vincenzo Mereu dipinge. La copertina del libro è tratta infatti da un suo quadro.
Il libro è composto di quasi 600 pagine, suddivise in 45 capitoli oltre la prefazione, ma  i caratteri adoperati sono molto grandi.
Devo dire che mi sono accostato a questo libro con un ingiustificato preconcetto, forse proprio perché spaventato dalla sua mole, pensando ad un suo contenuto prolisso e privo di argomenti sostanziosi. Il titolo del libro, poi, del tutto generico aveva forse contribuito a tale pregiudizio.
Però devo dire che già leggendo le prime pagine mi sono dovuto ricredere.
Intanto è bene dire che linguaggio è semplice e chiaro, pulito e limpido senza essere monotono o monocorde e, tra l’altro, contiene talvolta una sottile vena di ironia che lo rende più gradevole.
Nelle prime pagine è raccontato di una siccità devastante per la quale viene organizzata una processione e ci si sente subito immersi in un mondo che, sebbene appartenga al passato, è vivo e reale. In questa processione alcuni personaggi incominciano a delinearsi molto nettamente e con precisione descrittiva. In particolare Don Ferrucciu, personaggio importante del libro e simbolo di quella classe di signorotti che un tempo dominavano le scene in tutti i nostri paesi.
E insieme a lui Don Pietro, che nel libro non è una figura principale ma è invece importante sotto un aspetto non secondario. Questo prete, infatti, che nella processione porta una croce  sulle spalle è un personaggio molto vero e l’episodio in cui è raccontato come la croce fosse stata regalata alla chiesa da un ricchissimo conte che apriva i suoi granai a tutti i bisognosi, potrebbe essere reale. E nel libro sono presenti molti particolari della vita di fine ottocento e di come questa era organizzata, sia tra le classi più umili e povere sia tra quelle più ricche. Così troviamo spunti continui su come si lavorava, come si passava il tempo libero, quali erano i rapporti esistenti tra servi e padrone, insieme a  tanti altri aspetti che fanno si che questo libro possa essere apprezzato e considerato anche per il contributo che dà alla conoscenza di usi e tradizioni di un tempo.
Proseguendo nella lettura si è sempre più attratti dalla trama del libro, pur essendo questa di una estrema semplicità.
Le pagine corrono così via con il racconto della storia di Stefe e di Matilde. Lei figlia di Don Ferrucciu e lui operaio alle sue dipendenze prima e poi scacciato con infamia non appena il genitore di Matilda si accorge del rapporto amoroso esistente tra i due infelici innamorati.
Dopo una serie di circostanze i due si ritrovano un giorno soli, in casa di lei. E qui vi è un tripudio all’amore raccontato da Mereu con passione e con uno stile che ricorda i nostri massimi scrittori classici.
Vi sono nel libro molte immagini che contengono motivi della nostra tradizione, come i brani in cui sono descritti i preliminari ad una grande festa che i genitori di Matilde avevano organizzato nella previsione del suo fidanzamento con un partito di loro gradimento, così come si usava allora, e cioè utilizzare le figlie da maritare come merce di scambio e senza tener conto della loro volontà.
La preparazione della festa che si compendierà nel pranzo del mezzogiorno e la esecuzione della stessa hanno una parte rilevante nel libro, ed in essa Mereu ha l’opportunità di manifestare tutta la sua bravura, la capacità di raccontare il vissuto, la originalità delle situazioni che si presentano a volte comiche a volte tragiche, la fantasmagorica presenza della servitù, la facilità dei dialoghi, il tutto condito con un pizzico di umorismo, di cui ho accennato prima, che rivela i lati caratteriali dei personaggi a volte mettendoli in ridicolo a volte mettendo in risalto le loro virtù.
Nel romanzo sono molto frequenti intermezzi in cui l’autore esprime dei giudizi sui personaggi e sulle loro azioni e che rivelano lo spirito di saggezza cristiana che pervade il suo modo di sentire. Come quello che vi proponiamo:
“Nel mistero dell’animo umano nascono nuovi mondi ed altri scompaiono, come per incanto, come spazzati via da turbini ingovernabili della vita. Le immagini nascono e muoiono, come le dune nel deserto, lasciando dietro di sé amarezze e rimpianti e creando promesse e spazi entro cui la fantasia edifica nuove felicità che ci trascinano e, talvolta ci travolgono.”
Paolo Maccioni

mercoledì 13 febbraio 2013

Il bambino dalla milza di legno di Antonello Monni


Il bambino dalla milza di legno di Antonello Monni
Recensione di Paolo Maccioni






Questo suo primo libro ha delle particolarità che lo distinguono da tutti gli altri libri.
 Innanzitutto per il suo linguaggio, infatti l’autore usa contemporaneamente due lingue, il sardo e l’italiano in cui la parte scritta in italiano è prevalente ma ciò che è scritto in sardo, poi tradotto in italiano, è concettualmente più importante.
Inoltre è particolare anche per il suo contenuto. Si tratta di vicende che sostanzialmente riguardano  gli anni dell’infanzia che Antonello Monni ha trascorso soprattutto a  Oliena, nella casa padronale della sua famiglia, e quindi si tratta di un libro in larga parte autobiografico, ma relativo solo a quegli anni e a quei luoghi a lui congeniali rappresentati dal territorio che circonda il paese. 
Poi è particolare per i suoi personaggi che sono tantissimi e speciali, e sui quali alcuni emergono e si impongono alla attenzione del lettore. 
Il libro consiste in una serie di raffigurazioni che inserite nel territorio prediletto dall’autore  illustrano come splendidi quadri situazioni che Monni ha vissuto nella sua infanzia e dove la natura nel suo complesso di uomini, animali, alberi, monti e tutto il creato che vi è intorno, ha un posto  assolutamente preminente.
Alla parola raffigurazione potrei aggiungere anche un aggettivo,  che è :musicale. Si tratta di quadri musicali cioè. Si, innanzitutto perché il parlare del sardo logudorese, così come è scritto nel libro e come sembra proprio di sentirlo dalla viva voce di chi pronuncia le parole, hanno una cadenza melodiosa.
Inoltre vi sono tanti momenti in cui dalle parole fuoriesce  l’armonia dei luoghi che vengono descritti: così sentiamo chiocciare le galline, frusciare il bosco, cinguettare gli uccelli, sentiamo il respiro della volpe, il cadere delle gocce d’acqua dalla sorgente, il nitrire dei cavalli e così via.
Ora, è molto facile cadere nel retorico nel dire queste cose, e poi, a dire la verità,  non tutto nel libro  è così idilliaco. Vi sono aspetti che fanno ricordare la miseria che per tanto tempo ha regnato incontrastata in quei luoghi come in tanti altri della Sardegna. Come la descrizione della fame del contadino nel seguente brano:
La fame del contadino lascia spazio alla speranza e concede lunghe tregue, ma deve fidarsi della terra, del vento, del fuoco, dell’acqua, del sole, del gelo, degli uccelli, delle cavallette, dei vicini, delle capre, dei padroni, del suo lavoro, della buona sorte.
I nostri campi non sono fertili e ubertose pianure, ma radure sassose, intricate da radici profonde di macchie di lentischio e olivastro, antiche come la sete di secoli, dure come le pietre che devono spezzare per trovare l’acqua. Con quelle radici deve lottare il contadino per sopravvivere.
A quelle radici forti, col picco, la scure, le mani, la vanga, deve sostituire i semi del grano e dell’orzo; a novembre, se piove.
Attende altra pioggia, ma è troppa, scrosciante, porta via in sabbia la terra ed i semi.
Cessa la pioggia.
Rispera ed attende ancora, e guarda il verde leggero del grano, dal basso che sembra più verde e conta le spighe che già vede mature, e ci crede e ci spera.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
La neve. La neve e la brina; se è troppa è la fame.
A marzo ed aprile è una lotta con l'erba: è più forte del grano; è più forte, ed è tanta; con radici tenaci e deve zappare ogni solco e ogni spiga.
Se piove rispera.
Il sole. Il vento piega le spighe verdi, e i papaveri rossi; è bello vederli rossi tra il verde.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
...Lámpanas... Tribulas... Giugno ... Luglio ...
Ha circondato il suo campo di pietre e di spine; lo ha protetto dal morso di vacche e maiali; ha ancora paura del fuoco.
A casa ha tre figli e una giovane moglie. Miete col sole di luglio coi figli bambini e la giovane moglie.
         Il piccoloAntonello iniziava appena la sua carriera scolastica e agli insegnamenti della scuola aggiungeva quelli che gli venivano direttamente dal contatto con la natura. Naturalmente i genitori e tutto il mondo di persone che ruotavano intorno a lui e che a lui badavano erano attenti a scoprire le sue inclinazioni per poter poi indirizzarne gli studi che avrebbero costituito la sua preparazione alla vita. Ma dovevano fare i conti con una naturale e per loro quasi incomprensibile predisposizione di Monni per la vita animale.
Infatti, nel mondo del bambino assumevano un posto preponderante gli animali che lui osservava con curiosità sempre crescente. Gli interessava molto di più il belare delle capre oppure i dispetti che a turno si facevano tra loro le cavalle, che non, a scuola, il fare le aste forzando innaturalmente la mano destra dato che lui era mancino e, a quei tempi, quel fatto veniva considerato un difetto da correggere.
Lui si sentiva felice quando poteva incontrare nel suo paradiso speciale di Corte ‘e Josso la cavalla Isabella, la capra Galatea e Bitteré la capretta nata da Galatea.

Crescendo era l’esterno ciò che maggiormente attirava Antonello, ciò che vi era sulle montagne, nelle foreste, chi vi abitava, come era la vita che vi si svolgeva. Tutte curiosità che via via troveranno risposte ora semplici ora complicate spiegate da personaggi che saranno indimenticabili.
Uno di questi si chiama Lussuglieddu. Vi sono momenti in cui le parole e gli atti che compie questo piccolo servo pastore dimostrano una saggezza e una sensibilità fuori dal comune considerando anche che si tratta di un semplicissimo pastorello di capre di appena otto o nove anni.
Con lui Antonello lega subito, dal momento in cui Lussuglieddu lo invita un giorno a seguirlo insieme al gregge che governava.
Ajo’ venis a monte? E lui gli risponde
Emmo benzo, si vengo
Da quel momento diventano amici inseparabili trasferendosi l’un con l’altro esperienze ed emozioni.
 
Antonello andò con lui al monte, e ne rimase affascinato. La compagnia di Lussuglieddu fu estremamente importante. La sua maturità, il suo comportamento, la sua intelligenza, sono emblematici di quell’ambiente pastorale che ha radici tanto profonde che ancora oggi non è scomparso del tutto. È un ambiente che fa dell’uomo pastore barbaricino il re del creato, dove tutto discende dal monte e il monte è il centro dell’universo e dove oltre il monte c’è solo periferia.  Caratteristica è a questo proposito la considerazione di Gargagiu, un altro personaggio del libro di cui parleremo tra poco, che considerava tutta la zona di Castiadas né più né meno che semplici territori destinati alla transumanza dei pastori Olianesi.
E Lussuglieddu non fa eccezione alla regola: nel suo comportamento e nelle parole che dice, nella consapevolezza della situazione sua nei confronti di Antonello. vi è qualche cosa di superiore, di nobile, di regale.
Il cuore e la mente di Monni è aperta a tutte le esperienze che gli può dare  la campagna montagnosa di Oliena, la vita piena che vi si svolge al suo interno, i suoi infiniti personaggi  che la animano.
Tra questi vi è anche Pompeo, il bambino idropico che ha dato origine al titolo del libro e che insieme ai suoi genitori è protagonista di una storia intrisa di sentimenti delicati, ironici, tragici e comici.  Che, da sola, potrebbe riempire le pagine di un intero romanzo.
Un personaggio che però assurge nel libro al rango dei principali è Gargagiu.
Descriverlo non si può perché lo ha fatto talmente bene Antonello Monni che dire qualche cosa di più sarebbe inutile.
Era come un grande albero in una foresta: da bambino ti sembra grandissimo e vecchio, poi, dopo molti anni lo ritrovi ed è uguale, sei tu ora molto più vecchio; lui, l'albero, è come Gargagiu. Solo che Gargagiu era un uomo, un uomo di muschio però. 
Ero vicino al paese, lungo il sentiero che da Masiloghi sale a Sèttile; …e ad un tratto Gargagiu venne fuori da un cespuglio, senza il minimo rumore di foglie smosse, come un Gatto.…
Si sedette, non molto vicino, con il vecchio zaino militare, il  cappotto grigio-verde della prima guerra, le fasce, i calzoni stretti alle ginocchia, il colore del muschio.…
Lo vidi come era, ma a casa, nel cortile vicino al portone non ci avevo badato. Era come ...nel film di “Addio alle Armi”, direi ora. Ma erano passati almeno trent'anni da quella guerra, e lui vestiva ancora così.
Il libro è composto di tante trame: tutte le esperienze che il bambino ha fatto negli anni della sua infanzia diventano avventure di tutti i generi, sia di persone come quella di una certa Tzia Podda e i suoi mattoni fattti coi piedi, sia di animali come quella di un perniciotto volato inutilmente verso la libertà,  o anche quelle di semplici cose come le grotte in cui vi erano celati i misteri più impensati, o tante altre che è impossibile dirle tutte.
In questo libro Monni ci fa ritornare a vivere le origini del nostro  mondo, quando gli uomini vestivano di pelli e si cibavano di ciò che cacciavano. In tutto l’universo variopinto da lui descritto assaporiamo il senso della umanità vera, quella che accomuna ogni essere vivente, uomo o animale che sia, e che è la consapevolezza del proprio breve destino, e la rassegnazione per la propria sorte che non si pretende di cambiare, ma viene accettata con serenità e umiltà.