martedì 27 novembre 2012

Loro parlano con i tacchini di Carlo Corda



     Abbiamo appena sentito a bellissima canzone “Memory” che ci ha un po’ allontanato dalla realtà facendoci sognare, e noi rientriamo nell'argomento principale della serata parlando del libro. E iniziamo dal titolo: “Loro parlano con i tacchini”.
È un titolo insolito e immediatamente fa pensare ad un romanzo umoristico. Chi infatti può pensare di parlare ad un tacchino se non un burlone, uno incline alla comicità o uno svitato? E, in parte è così perché certamente si tratta di persone che normali non sono.
Quando una persona viene colpita da un dolore tanto forte da essere quasi certo di non riuscire a superarlo, quando arriva sull'orlo dell’abisso definitivo dal quale poi non si riesce più ad emergere, subentra in lei una trasformazione.
Questa trasformazione può portarla ad uno stato di esaltazione tale da fargli compere atti di follia imprevedibili e fuori dal comune oppure ad uno stato di autodifesa. E in questo secondo caso la mente  si sofferma su altre cose, forse più semplici, si addentra in particolari per gli altri inconcludenti, si attarda su minuscoli episodi che agli occhi dei più sono del tutto irrilevanti, vaga con il pensiero fuggendo da una parte e dall'altra cercando qualche punto fermo su cui appigliarsi, ode suoni diversi da quelli che sentono gli altri, parla in modo differente e si rivolge anche a chi non può né capirla né rispondere, come appunto i tacchini. Cerca insomma di sopravvivere ad uno stato di cose che altrimenti lo porterebbe all'annientamento facendolo precipitare in un profondo e misterioso buio.
Meglio però di questa mia descrizione lo spiegano le parole del libro.
 “Mi tornò alla memoria quello che, anni prima, mi disse un giovane, anche lui ricoverato nell'istituto psichiatrico del continente dove ero stato trasferito provenendo dalla Sardegna: "L’esperienza mi ha insegnato che ci sono due tipi di follia, c’e quella caratterizzata da uno stato di demenza totale e, in questo caso, chi ne è affetto è un infelice e ha il destino segnato. Ma c’è anche l’altra follia, quella nostra, che è diretta  conseguenza delle circostanze della vita, e che lascia sempre aperto un varco alla speranza. Non ti umilia, non ti deteriora nel corpo, non ti toglie la capacità di amare, di pensare, di sognare, di fare progetti, anzi, ti fa sviluppare abilità delle quali non avevi consapevolezza. Noi matti riusciamo a vedere nel buio e attraversiamo la strada a occhi chiusi, noi dialoghiamo con gli uccelli, noi parliamo coi tacchini, noi sappiamo scrivere poesie, noi abbiamo la ferocia del leone e la tenerezza della madre verso il figlio appena nato. Niente ci è precluso, noi  matti possiamo tutto”.
Quindi abbiamo appurato che non si tratta di un romanzo umoristico. Al contrario il libro assomma una serie di sentimenti gravi e solenni come quello della morte, della malattia, della follia.  Ma non si deve nemmeno pensare che il libro sia una specie di trattato sulla malattia che porta gli essere umani a diventare matti o che si esaurisca nella disamina di disturbi mentali. 
 Si. È vero. Nel titolo vi è racchiuso in estrema sintesi tutto il romanzo: si tratta di episodi che riguardano loro, i matti, ma quelli che però sognano, fanno progetti, dialogano con gli uccelli, amano.
Il libro, infatti, è il racconto semplice e affascinante di un medico che dopo fatte le sue prime esperienze da laureando e appena laureato incomincia la trafila della sua vita con il percorso accidentato che la professione gli riserva fino ad arrivare alle soglie della maturità. E in tutto questo periodo vi sono una serie di episodi riferiti a lui direttamente ma anche ad altre persone che hanno a che fare con quel dolore che è causa della follia .
E il libro racconta questi episodi non con la pesantezza della tragedia senza rimedio, ma con la serenità che  da la consapevolezza dell’incombere su tutti noi di possibili tragici eventi e del loro necessario superamento proprio per non cessare di esistere. Anzi, sapendo che quando le persone si trovano in quello stato vi è sempre qualcuno dall'alto che le guarda.
Nell'esaminare il romanzo e nel parlare di questo  non ci interessa sapere che le vicissitudini capitate a Efisio sono fatti veri e riferibili a persone in carne ed ossa. Questa può essere una curiosità alla quale l’autore del libro se vuole potrà dare risposta, ma a noi interessa lo scorrere del romanzo al di là della sua aderenza alla realtà.
Le avventure in esso contenute ci avvincono con il loro drammatico svolgersi. I personaggi sono tanti e diversi l’uno dall'altro legati insieme da un destino che li ha accomunati in un percorso doloroso e che dopo una serie di episodi, nella parte finale, ci porta a fare il tifo per Elisa malata di cancro e per come  affronta la sua terribile realtà.
Abbiamo seguito con apprensione le sorti di Elisa come se si trattasse di un nostro familiare e ne condividessimo le angosce e i patimenti. Il romanzo ci prende la mano, ci coinvolge emotivamente, ci lascia con il fiato sospeso al momento delle sue risoluzioni, ci fa partecipare al dolore della famiglia.
Questo significa che lo scrivere di Carlo Corda è incisivo, non lascia spazio a facili sentimentalismi o a patetiche malinconie. Da un certo punto di vista è scientificamente spietato, ma lo scrittore c’è. Chi ha scritto questo libro non è solamente un uomo che ha messo sulle pagine il proprio diario di vita vissuta, ma è uno scrittore che ha scritto un libro di cui ricorderemo per sempre le vicende. Grazie a tutti.
Paolo Maccioni



mercoledì 31 ottobre 2012

Maurizio Pompei: noir come nero


(recensione per Abel book)


     Si tratta di tre racconti noir scritti con un linguaggio denso e provocatorio, in quanto tendono a rappresentare realisticamente l’ambiente in cui ci si muove, al quale, dopo poche pagine di iniziale sconcerto, ci si abitua facilmente. Maurizio Pompei scrive, infatti, in  modo essenziale e non si perde in fronzoli. I concetti sono espressi con tratti fulminei in modo da dare immediato risalto all'azione. Il percorso da lui seguito per concludere il racconto è rapido, quasi frettoloso, scevro da inutili appesantimenti descrittivi, per cui le pagine scivolano senza fatica e l’ansia insita nell'agire del protagonista dei racconti, nel primo e  nel secondo l’autore parla in prima persona, si inserisce gradatamente anche nel lettore pur smaliziato costringendolo a seguire velocemente le vicende narrate per giungere alla conclusione.
     In una sola pagina vi sono tante azioni, nel nostro caso azioni poco commendevoli, il libro è dichiaratamente un noir, e  solo di tanto in tanto l’autore abbandona la sua cruda esposizione dei fatti per lasciarsi andare a qualche considerazione che è insieme  un ricordo sbiadito del senso di pudore, o un desiderio infantile e  particolare, che gli fa pensare: ...
                 la nostra vita  è costellata di vaste zone d’ombra che ci nascondono il senso delle nostre scelte, dei nostri errori. Bisognerebbe che ci fosse qualcuno che registrasse tutte le nostre azioni e poi ce le facesse rivedere. Una stiratrice delle nostre  pieghe, dei nostri meandri e ci presentasse tutto ordinato, pulito. Invece nulla, tutto rimane spiegazzato e ti ritrovi sempre più solo, sempre più emarginato, sempre più …

            dove può intravedersi quasi una giustificazione all'agire sconsiderato e folle di certe persone accecate da presunzioni e pretesti diversi per compiere le loro infamità. 
     Sono soltanto piccoli intermezzi che interrompono la serie infinita di scene cruente e orripilanti descritte nel romanzo tanto che il lettore si chiede, almeno nel primo dei racconti che è anche il più significativo e il più lungo, come il protagonista riuscirà a venirne a capo.
     Invece la soluzione arriva puntuale e in perfetta sintonia con il resto del racconto, ma  non sarò certo io a raccontarvela …

Posso solo dirvi che leggerei volentieri qualche altro racconto di Maurizio Pompei.

Paolo Maccioni

lunedì 6 agosto 2012

Mara non gioca a dadi di Luciano Modica

Recensione di Paolo Maccioni


Mara non gioca a dadi è una storia semplice e collaudata da tanti film e libri che più o meno raccontano avventure di mafia, di donne e di ispettori di polizia. 
In questo caso la protagonista femminile è Mara che da sola riesce a sgominare una intera banda di criminali che avevano l’ambizione di dominare una città senza farsi notare troppo per eludere in tal modo le pressioni delle locali forze dell’ordine. 
Il racconto sembra fatto a misura di qualche  regista che voglia farne una serie televisiva. Vi sono infatti tutti gli elementi che possono interessare gli abituali amatori di quel genere di film: vi è l’eroina con la sua storia d’amore,  vi è l’ispettore di polizia mezzo filosofo con la moglie che gli consente di abbandonarsi al calore dei piaceri casalinghi,  vi è il suo consulente buddista, vi è la polizia con la sua immancabile talpa dentro l’apparato, vi è infine la mafia con i suoi giochi di potere, con il suo linguaggio crudo, le male femmine e tutto l’apparato che milioni di spettatori conoscono e  continuano a richiedere alle fiction televisive di tutto il mondo e che si presta ad una tale vastità di ramificazioni avventurose  da poter continuare all’infinito.
L’autore ha scelto di chiudere l’argomento con un finale dolce che accontenta tutti, ma potrebbe riaprire l’argomento in ogni momento e ad ogni esigenza. Le occasioni sono infatti molteplici e l’inventiva dell’autore è tale che non gli sarebbe assolutamente difficile.
In definitiva il libro è leggero, si legge in un battibaleno perché il lettore si lascia prendere dal gusto della  trama e cerca di scoprire velocemente come andrà a finire, un po’ come succede nei fumetti.  Il racconto, infatti, scivola senza sbavature e senza particolari eccessi che  possano influenzare la credibilità degli episodi. E questo sembra in effetti essere l'interesse precipuo  che l’autore richieda al lettore anche se in qualche caso, come nella spiegazione del titolo, in cui il riferimento è la disquisizione intellettuale tra filosofi sulla casualità dei fenomeni per cui  Dio gioca a dadi oppure no, potrebbe sembrare che vi siano diverse e più profonde esigenze. Ma sono solo pochi lampi che, semmai, indicano il substrato culturale di Modica e fanno eccezione alla regola. Il libro è perciò assolutamente consigliabile a chi non voglia dedicarsi a pensare troppo a quello che legge ed è da annoverarsi, ammesso che i libri possano etichettarsi come qualunque altra merce, tra i cosiddetti libri d’evasione. E in questa categoria Luciano Modica può collocarsi a buon diritto tra quegli scrittori che riescono a catturare l’attenzione del lettore riuscendo soprattutto a tenerla desta fino alla fine del libro. E non è poca cosa. 
Paolo Maccioni

mercoledì 18 luglio 2012

Il pettine senza denti


Il pettine senza denti


Gentili signore e signori grazie della vostra presenza. Ringrazio la Biblioteca di Quartu e di Flumini che, come al solito ci da una mano sia nel permetterci queste serate nel suoi locali, sia nell’aiutarci per l’organizzazione delle stesse.
Il libro che presentiamo questa sera è intitolato “Il pettine senza denti”e il suo autore è un giovane che scrive con il pseudonimo di Eugenio Campus ma il suo vero nome è Sergio Casu.

Non mi dilungo nel leggervi la sua ancora breve biografia che trovate comunque sul suo sito internet.

Oltre che scrittore e editore, sua è infatti la casa editrice Applidea, scopriamo che Sergio Casu è anche fotografo ed ha al suo attivo una mostra tenutasi nel 2009 alla Vetreria di Monserrato dal titolo “L’Africa non è così nera”, nonché organizzatore di eventi come il concorso "Parole in corsa 2009 - scrivi e scatta".

Il pettine senza denti è stato pubblicato nel 2008, da Applidea ed è il secondo romanzo pubblicato dopo “ Anima mediterranea”.

Il romanzo Il pettine senza denti ha avuto grande ripercussione in tutta Italia e, tra l’altro, è stato presentato a Milano alla libreria Feltrinelli da Franca Rame alla presenza di scienziati e personaggi importanti che si occupano dei problemi denunciati nel libro. E anche in Sardegna sono numerosissime le presentazioni di rilievo che il libro ha avuto,  diffuso tra l’altro in quasi tutte le biblioteche dell’Isola.
Ringrazio perciò l’autore per essere oggi presente a Flumini per parlarci del suo libro.
Prima di dargli la parola vorrei dire che un romanzo come questo, col suo carico di intrighi internazionali, ambientati in un clima mediterraneo come quello della Sardegna paragonabile per suggestione di immagini ad un’isola tropicale del Sud America o giù di lì, ebbene, se fosse frutto di uno scrittore americano, o anche semplicemente supportato da una delle nostre poche case Editrici Italiane che assorbono la maggior parte del mercato letterario italiano, ne avrebbero fatto un best seller da milioni di copie vendute in tutto il mondo con relativo seguito di film e documentari.
Ma siamo in Sardegna, culturalmente ignorati o quasi dalla stampa nazionale, estremizzati e non competitivi nei confronti del resto della popolazione letteraria italiana.

A questo proposito se mi permettete vorrei aprire una parentesi per  dire che quando uno scrittore sardo si afferma è perché è nuovo, come Niffoi o Michela Murgia e stupisce. Cioè allo scrittore sardo perché si  affermi in campo nazionale e oltre si richiede di più che agli altri, deve essere assolutamente eccezionale nel senso letterale del termine che cioè deve fare eccezione alla regola e quindi deve per forza farsi notare, deve stupire. Ricordate Gavino Ledda con il suo padre e padrone?
Invece i nostri scrittori sono tanti e tra questi ve ne sono di bravissimi. Scrittori che,  oltre che autori, curano l’editing del loro libro con l’aiuto quasi esclusivo della moglie o la madre o la sorella, e senza nessuna scuola,  nessuna casa editrice a consigliare o indirizzare e non devono mai ringraziare  nessuno ( guardate la sfilza di ringraziamenti in quasi tutte le opere di autori affermati) perché nessuno ha fatto niente per loro. Lavorano isolati. Devono cercarsi a fatica  un editore che pubblichi il loro lavoro talvolta pagando a caro prezzo la loro voglia di esprimersi quando addirittura non sono costretti a diventano editori di se stessi.

Perciò doppio merito ad un libro come questo che si impone all’attenzione della critica nazionale.

Chiusa questa parentesi voglio dedicare solo due parole alla trama e al contenuto del romanzo.

Il libro inizia con una introduzione su Violante Carroz.  Sappiamo  chi era questa potentissima donna che intorno al 1500 era padrona di mezza Sardegna, se non altro perché al suo casato è intitolata una via di Cagliari.
Ma a noi interessa solo l’ultima parte della sua vita, quella che la vede pretendere dal parroco di Quirra l’annullamento del suo ultimo matrimonio per potersi risposare, con Berengario. Al suo rifiuto e al successivo tentativo di mercanteggiamento, Violante fa uccidere il parroco.
Leggendo queste realtà storiche viene da pensare, con una certa rabbia, a quanta prepotenza e quanto potere erano detenuti nelle mani della nobiltà di allora, tanto da ritenersi superiori a tutti, persino a Dio.  Potere che avrebbe potuto essere esercitato anche un pochino per il bene comune della Sardegna, ma che invece, almeno a mia conoscenza, è stato solo utilizzato per svolgere nel modo più vessatorio possibile la loro funzione di esattori, chiusi nelle loro piccole o grandi corti a intessere trame dinastiche ad uso e consumo dei loro personali interessi.

Andando avanti nella lettura del libro, notiamo altre figure di donne. Tra queste suscita curiosità quella dell’accabadora, che la maggior parte di noi ha imparato a conoscere dal libro di Michela Murgia, intitolato, appunto L’Accabadora.  Ma i tratti salienti della sua figura e della sua attività poco edificante, come possiamo ora constatare, erano stati già tracciati da Casu nelle pagine di questo libro, in cui la sua figura è rappresentata con molte sfaccettature di verità e di leggenda.

Dopo esserci ambientati nella conoscenza del romanzo, che si svolge in tre strati di tempo, assimiliamo le avventure dei personaggi principali e nel momento in cui ci si immedesima negli avvenimenti raccontati dall’autore, risaltano le loro personalità,  ed è in questa fase che specialmente la figura di Stefanina  esplode e permea di se stessa tutto il resto del romanzo, perché la sua figura di donna, con le sue angosce, le sue titubanze, la sua voglia, la sua intelligenza, la sua carica di umanità la sua curiosità, è la figura di spicco che è stata descritta dall’autore non solo con il cervello e l’abilità del linguaggio ma soprattutto con il cuore. E il lettore lo capisce.

L’altra chiave di lettura del libro, che forse è quello al quale l’autore vuole dare più risalto, è l’inizio di una indagine a tutto campo e una denuncia per crimini contro l’umanità che, il più delle volte si fanno contro ignoti, in questo caso ignoti non sono perché di essi si conoscono nomi e cognomi in quanto il criminale è nientemeno che il nostro Stato, la nostra forza armata, il nostro ministero della difesa, il nostro apparato burocratico compresi SISMI, servizi segreti e via dicendo. E il crimine commesso è quello di aver lasciato ammorbare il territorio di Quirra per pure speculazioni economiche impronunciabili provocando conseguenze terribili come malattia e morte dei suoi abitanti.
Spiaggia di Quirra sottratta al turismo a causa degli esperimenti militari
Il libro di Casu, o Campus, come preferite tratta un argomento che meriterebbe da parte della collettività sarda una attenzione ben maggiore di quella che  ha.  Se è vero quanto descritto, e l’autore ce lo racconterà nel dettaglio, ci sono tutti gli estremi perché la popolazione sarda si sollevi con una sola voce per chiedere a tutto campo il massimo del risarcimento non soltanto per i danni subiti, ma anche per quelli che potranno insorgere nel futuro a causa di quelle scellerate speculazioni nazionali esercitate all’insaputa e sulle spalle di tutti noi sardi che viviamo in questa isola bistrattata e considerata ancora dal potere come terra di conquista. 
Paolo Maccioni

martedì 26 giugno 2012

Morti, amanti e funerali di Matteo Gennari


Recensione di Paolo Maccioni per Abel Book


Il romanzo di Matteo Gennari è distribuito in duecento pagine e cinquantotto capitoli, e in ciascuno dei capitoli credo vi siano almeno due o tre funerali per cui il romanzo di Matteo Gennari potrebbe passare alla storia per il gran numero di morti  implicati, che a conti fatti costituirebbero un numero impressionante e,  a ben guardare,  soltanto raccontando le generalità dei defunti seguiti da una breve necrologia, potrebbero esaurire da soli lo spazio disponibile per qualunque altro tipo di scrittura.
Ma non è così e Matteo Gennari, se passerà alla storia,  come gli auguro di cuore, non sarà per questo motivo perché nonostante la premessa egli non si limita a raccontare la necrologia dei defunti, tuttaltro. Ne interpreta invece  la vita e che vita!
Diciamo in poche parole quello di cui stiamo parlando in modo che il lettore trovi qualche corrispondenza con ciò che scoprirà poi scritto nelle pagine del romanzo: la vicenda si inspira alla vita di una famiglia che da generazioni trae il proprio sostentamento materiale dall’esercizio di agenzie funebri. Vi è un padre, una madre, una  figlia un’altra figlia, un figlio e una nonna che si confrontano con l’esistenza del prossimo,  e fin qui è tutto normale anche se la loro vita normale non lo è proprio a giudicare da certi dialoghi del tipo di quello che segue: “perché mi hai sedotto? Ricordi Edgardo, ricordi quando abbiamo fatto l’amore al cimitero di notte sulla lapide di un giovane appena morto di cancro, ricordi quella volta che ci siamo chiusi dentro una bara e siamo rimasti così, uniti come in un abbraccio eterno, e poi tu hai goduto dentro di me e io ho abortito per la prima volta?”… Dialoghi e situazioni espressi con crudezza a volte anche esagerata che potrebbero confondersi con una sorta di sordida blasfemia ma che trovano poi in brani come quello che segue una dolcezza che si esprime con la stessa semplicità di linguaggio: Costanza le strinse la mano, cosi rugosa e saggia. Ricordava quando l'aveva portata al mare con quella sua vestaglia da cucina, la nonna non si era passata la crema solare e le si era formata una bolla purulenta dietro al collo e lei gliela osservava, le aveva chiesto come adesso, "Stai bene nonna". e lei come adesso aveva risposto. "Sto meglio",  "Dio, se le concedi altri dieci anni di vita ti prometto che dedicherò i miei giorni a te" disse ad alta voce credendo di poter ingannare il creatore coi suoi giochetti. "Ciao adesso", disse la Pierina. lei si allontanò cercando di fare il minore rumore possibile. ma un ventaccio sbatte le persiane che s'aprirono di colpo inondando la stanza di luce. Costanza le chiuse con forza. poi s'avvicinò alla nonna per sincerarsi che stesse dormendo, ma non stava dormendo.
Le avventure della famiglia sono infinite e le vicende dei personaggi si intrecciano tra loro in una girandola di situazioni a tinte forti di tipo sentimentale, sessuale, familiare, impregnate di quell’ambiente funerario che fa da sfondo e pervade tutto il romanzo.  Ma anche qui è abbastanza normale, e ci viene da constatare l’originalità del racconto che appunto si svolge tra bare, funerali e morte sempre in agguato, senza tuttavia creare nel lettore il senso di fastidio che l’argomento potrebbe suscitare.
Ciò che invece si impone nel romanzo come del tutto originale è la presenza del subnormale raccontato però come una novelletta. La presenza di spiriti che accompagnano la nostra esistenza e che ci accompagnano nel corso di nostri anni fino alla morte ed anche oltre. E non è Matteo Gennari a predicarcelo, ma è un simpatico personaggio che risponde al nome di Bartolomeo la cui la presenza guida la regia di tutto il libro e ci fa pensare, senza che nemmeno ce ne accorgiamo,  agli altri mondi dell’aldilà.
Matteo Gennari si distacca da tanti scrittori di oggi, afflitti  da una certa monotona ripetizione di trame e di situazioni che hanno più o meno tutte lo stesso fondamento e il suo estro si nutre di temi non consueti. Inoltre usa un simpatico linguaggio con il quale riesce a descrivere con leggerezza anche cose che leggere non sono.

Paolo Maccioni









giovedì 5 aprile 2012

Milano Termoli racconto a più fermate di Lucio Rizzello




Milano Termoli
Racconto a più fermate
Edizioni Abel Books

Un viaggio tra sogno e realtà che riporta l’autore Lucio Rizzello alla sua origine molisana.  Si tratta di un percorso all’incontrario di uno spezzone di vita di un uomo che vive e lavora a Milano, Milano che beve Campari tra carrozze lucenti.,che trascina l'Italia verso un futuro migliore. Milano che ha scordato le bombe e l’'odore di morte, che ha ancora tante ferite da ritrovare. Milano che fa tardi la sera, che ingurgita olive al bancone di un bar. Milano Centrale.  e che da Milano vorrebbe scappare. È una storia che si ripete spesso, la grande città con i sui abitanti: Eccoli qui i Milanesi che vanno di fretta per arrivare in ufficio, con in testa la seicento che gli arriverà tra qualche giorno, la moglie che vorrebbe una cucina nuova e la prossima cambiale che dovranno pagare per permettersi tutto questo, e il pensiero che torna indietro: Siamo a Vasto, a meno di un’ora da casa. Guardando il cartello ripenso ai miei quattordici anni: fresco di licenza media a mietere i campi  per tutta l’estate, a trasferire covoni nell'aia, trebbiare il grano, le fave ed il mais.C'è un luogo, a Termoli, dove la terra declina veloce. Una striscia sottile di terra, poi anche la roccia si abbandona alle onde. Da li è solo mare. Su quei frangiflutti di cemento, oltre i bastioni del Borgo Vecchio, mi fermavo spesso a pensare. Gettavo i miei dubbi in quella fluida distesa di verde e di azzurro che si confondeva col cielo, all’orizzonte. Risacca schiumosa fin sotto i piedi mi mostrava come anche l'enorme, l'immenso, sia in continuo movimento, mai saziato dal viaggio.
Ma il racconto di Rizzello, che si svolge nelle 39 pagine di cui è composto il libro è di più di un semplice ricordo sentimentale. È anche sofferenza per un amore che sembra in bilico: entrambi siamo cosi maledettamente fermi che  quasi, porca miseria … mi viene di nuovo da piangere dove chi sta fermo con lui è l’altra sua metà, la donna che è ricordata con la poesia di Edoardo Sanguineti

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia …

Nel racconto vi sono diversi altri personaggi che animano la trama e la rendono frizzante, come l’amico di Bologna o la maga del treno. L’autore fa partecipe il lettore delle sue angosce e delle sue speranze e lo fa con una vena intrisa di un sottile umorismo che rende del tutto piacevole la lettura. Nessuno che abbia trovato un istante per me, povero corridore scivolato malamente sul ghiaccio. Non so quanti minuti sia rimasto li per terra, inebetito da quella flotta di salmoni ben vestiti, fermo col naso in su a pensare che comunque, come a Loreto, si tratta ancora e solamente di un problema di attrezzatura. Un nuovo paio di scarpe, ho pensato, è questo tutto ciò che mi serve per essere felice.
Con un finale che non è a sorpresa e che può sintetizzarsi in alcuni versi presi in prestito da una canzone di Vinicio Capossela ( Sante Nicola ) che recitano: E Sante Nicola ci ha portato in dono le parole per parlarci e scaldarci …  per non vedersi passare vicini e muti.

Paolo Maccioni


sabato 3 marzo 2012

Il Chiossetto verde


In generale le biografie hanno un interesse solamente per chi conosce o vuole conoscere la vita della persona di cui si narra la storia, e solo se la persona è nota universalmente oppure la sua storia è densa di episodi “romanzeschi”, allora la biografia avrà un interesse generale, altrimenti è destinata a rimanere in un ambito limitato. 
Angelo Piero Pasino sa benissimo queste cose perché nella postfazione del suo libro Il Chiossetto così scrive:
 Questo scritto è nato come una raccolta di ricordi di famiglia e mie personali: pensavo che essi potessero derivare un loro più generale interesse dalla singolarità o eccezionalità delle persone e degli ambienti; solo rivedendo lo scritto mi sono però reso conto che gli uomini e il loro mondo cosi rievocati costituiscono una testimonianza diretta e indiretta dello spirito e dei principi, dei miti collettivi e degli ideali, voglio dire dei valori fondanti, che hanno informato gli italiani e la loro vita fino a]l’infausta ll Guerra mondiale  (ma quale guerra e poi fausta?].”
Sulla base di queste considerazioni proviamo ad analizzare se questa testimonianza contenuta nel libro costituisce veramente una documentazione di quei “valori fondanti” che  informavano gli italiani prima della seconda guerra mondiale.
Prescindiamo dalla genealogia contenuta in abbondanza nel libro che talvolta affatica il lettore costretto a seguire con difficoltà la quantità di personaggi che vi sono implicati e i luoghi che variano in continuazione con il variare dei trasferimenti, degli avvenimenti, dei matrimoni, delle nascite e delle morti, e ricerchiamo quei fatti che, come un filo conduttore ci devono portare al raggiungimento del nostro obbiettivo.
 Il filo conduttore della vicenda principale che tiene uniti tutti, o quasi tutti, gli episodi descritti nel libro (in maniera molto scorrevole, alla quale si aggiunge anche un pizzico di ironia che non guasta) è la vicenda del capofamiglia, cioè il padre dell’autore de “Il Chiossetto”.  La sua carriera di funzionario prefettizio tra alti e bassi, interrotta durante la guerra e dopo ripresa,  vissuta in una dimensione quasi eroica durante la ingloriosa occupazione della Francia, e poi il mesto ritorno in Italia dopo la disfatta, il pericolo di morte ad opera dei partigiani, che poi uccidono al posto suo l’incolpevole rappresentante del fascio a Nizza, il lavoro perso e il suo reintegro con l’aiuto addirittura di Palmiro Togliatti, sono gli episodi che costituiscono la principale ossatura entro la quale si muovono i principali protagonisti del libro. Tuttavia sbaglierebbe chi ricercasse nel libro elementi di storia italiana di quel periodo o della resistenza, o anche della repubblica di Salò che pure è presente. Gli argomenti che attengono a quelle storie, sono leggeri, scivolano via come l’acqua di un rubinetto. Non lasciano nulla che possa incidere profondamente sui convincimenti già presi e collaudati di ciascuno di noi. Semmai fanno riflettere sulla confusione che la generazione che ha vissuto in prima persona quei momenti ha dovuto subire a causa degli stravolgimenti che si sono susseguiti nella nostra patria.
Il libro è sì una autorevole testimonianza, ma non di quei valori che, in cosa consistano veramente, non è dato sapere giacché gli italiani, così come appare nel libro, sono sempre gli stessi: alieni dalle grandi tragedie e propensi invece a coltivare i propri piccoli orticelli anche quando il posto occupato nella società è tutt’altro che di poco conto. Il libro testimonia invece, attraverso le rievocazioni di luoghi e persone, la vita di tutti i giorni in un periodo di grandi sbandamenti e anche come la maggior parte della gente affrontasse la vita con spirito e volontà non diverso da quello di oggi, fatte le debite proporzioni con le possibilità allora molto più limitate e perciò viste con occhi attuali quasi come imprese epiche. (Ad. esempio quella di intraprendere una qualsiasi attività commerciale).
Questa testimonianza rappresenta perciò il valore del libro che ha anche il pregio di raccontare i fatti con un sottile velo di nostalgia che li avvolge rendendoli pieni di fascino anche quando si tratta semplicemente di parlare di prosaiche faccende domestiche. Un libro insomma che può consigliarsi a tutti e che appassionerà soprattutto coloro che essendo nati e vissuti specialmente in Asti o Alessandria troveranno molti riscontri alle loro personali conoscenze.




venerdì 10 febbraio 2012

Mirella Delfini “Andrà tutto bene”


 

     Mi rendo conto con un certo stupore di aver iniziato e terminato di leggere le 571 pagine di questo libro con una incredibile velocità, e anziché iniziare a commentarlo dall’inizio preferisco farlo dalla fine perché questa mi ha commosso. La visione di una anziana donna (mi sembra improprio parlare di vecchiaia anche se la protagonista di anni ne ha 84) che sale su una collina per piantare semi di alberi nella speranza di vederli attecchire e crescere, in omaggio ad uno smisurato amore per la natura e per la vita,  mi ha riempito l’animo di dolcezza. Sono sicuro che la Delfini  adempirà questo suo voto  e questa certezza deriva  dall’idea di lei che mi sono fatto leggendo  il suo libro: “ Andrà tutto bene” edito da Abel Books,  che in 48 capitoli ripercorre  tutta la sua vita, dalla nascita ai giorni d’oggi.

     Mirella Delfini  ha girato tutto il mondo, ha lavorato per diversi quotidiani, (Il giorno, Paese sera, Repubblica, L’Unità). Con Mondadori ha pubblicato “ Insetto sarai tu” ( tre edizioni, l’ultima negli OSCAR), e la prima edizione di “Senti chi parla”. Con la Muzzio ha pubblicato “ La vita segreta dei piccoli abitanti del mare” ( Premio Estense 2000), “ La vita segreta dei ragni” e “La vita segreta degli insetti geniali”. Ha collaborato a riviste come Ligabue Magazine e La macchina del tempo.

     Nel libro” Andrà tutto bene” sono raccontate tutte le vicende che hanno caratterizzato la sua vita e poiché questa è stata estremamente intensa  e interessante non poteva che essere interessante anche il racconto. Nei suoi numerosi viaggi, ha incontrato personaggi che rappresentano tutte le varie attività che animano l’umanità.  Ha amato, ha vissuto, ha giocato ed ha anche sofferto. Penso a quando ad esempio ha dovuto lasciare il figlio in collegio, penso alle morti delle persone care, e questa sofferenza  le ha dato la possibilità di raccontare le cose anche le più tristi con serenità d’animo e limpidezza  come se le apparissero riferite a terze persone ma non a lei stessa, e talvolta di sorriderne persino,  pensando che oramai non possono più provocarle dolore.

     Le avventure  e le vicende descritte nel libro sono talmente tante che è inutile tentare di farne un riassunto. Anche riuscire a descrivere un singolo episodio risulta difficile perché Mirella Delfini lo fa abbondando con inserimenti della sua cultura frutto dell’esperienza cresciuta con lei sul campo, e delle letture ( mi chiedo quando aveva il tempo di leggere),  per cui sono continui i riferimenti e le citazioni di scrittori, studiosi, saggisti poeti e politici, oppure semplici amici, che ne rendono improponibile la sintesi. Ogni capitolo è un romanzo a se, ogni episodio meriterebbe il commento, e così il libro diventa  una somma di emozioni che si susseguono ininterrottamente senza pause.

     Gli avvenimenti che compongono “ Andrà tutto bene” interessanti sotto il profilo del contenuto, il più delle volte sono ammantati da una allegra ironia che li fa diventare leggeri anche quando tali non sono, come quando ad esempio  intervista Papa Giovanni XXIII. D’altra parte  far sorridere il lettore sembra sia una sua precisa parola d’ordine. Non apprezza il parlare saccente con tanti “ismi”, quello di tanti pseudo intellettuali  che si chiudono nella ermeticità come in difesa di una casta eletta. Parlare il linguaggio che si parla a casa, farsi capire da chi legge e farlo sorridere, questo sembra il suo imperativo al quale si è imposta di attenersi.

     Ho imparato da questa lettura molte cose e molte altre imparerò perché rileggerò  “  Andrà bene”  con attenzione ancora maggiore soprattutto a certi interrogativi che l’autrice si è posta e che tutti ci poniamo, su molti aspetti della nostra vita e su quella di tutte le cose create nella terra.

     Credo che al di la degli episodi contenuti nel libro il merito maggiore di Mirella Delfini sia quello di riuscire a far riflettere  arrivando dritti al cuore.

giovedì 2 febbraio 2012

La caduta degli angeli



La Caduta degli angeli
Romanzo di Stefano Sarritzu
Recensione di Paolo Maccioni  pubblicata su www.paolo-maccioni.blogspot.com

Il romanzo consta di 204 pagine suddivise in 31 capitoli in cui sono raccontate le vicende di un gruppo di giovani in procinto di abbandonare il periodo della spensierata giovinezza vissuta fino allora per immettersi, con tutti i turbamenti e le angosce della realtà quotidiana, in una età in cui è invece prevalente la consapevolezza delle proprie idee, dei propri progetti, del proprio futuro. È insomma il passaggio dall’età immatura a quella matura  che per qualcuno avviene senza traumi per qualche altro con sofferenza, per certi con naturalezza e per altri con sforzi esistenziali. Ma, in ogni caso, è un momento della vita che tutti abbiamo o che dobbiamo attraversare e che ci ricordiamo poi con sensazioni diverse a seconda del modo con cui si è cercato di raggiungere quella felicità verso la quale abbiamo indirizzato tutti i nostri sforzi.
Su questa falsariga, e ricercando appunto, consciamente o inconsciamente, questa felicità, si muovono i personaggi di questo romanzo, tutti ragazzi dai diciassette ai venti anni o poco più,  che gravitano intorno ad una banda musicale che si sfascia e si ricompone in modi diversi secondo gli umori e le decisioni del suo principale capo.
Va da se che nel corso delle vicende troviamo tutti gli ingredienti che compongono il tessuto vitale su cui i ragazzi di oggi intessono le loro trame: gli amori, corrisposti o meno, le passioni per il calcio o per la musica, il modo di vestire, di truccarsi, di pettinarsi delle ragazze, il linguaggio, a volte abbastanza crudo e incisivo, ma anche il modo di riflettere su aspetti più seri e problematici dell’esistenza come la morte o la religione.  
Al di la delle vicende dei singoli protagonisti, che si intrecciano tra loro in situazioni sentimentali che difficilmente saranno quelle definitive, l’ambizione dell’Autore è quella di rappresentare appunto l’inquietudine e talvolta il trauma che provoca in loro il superamento di una età “irresponsabile”,  per passare a quella immediatamente successiva con tutto ciò che questo passaggio rappresenta in termini di problemi affettivi, familiari, sociali, amichevoli e così via.

L’iimpegno è molto ambizioso e intrigante e Sarritzu, per raggiungerlo ha usato una buona prosa,  una competenza musicale che forse talvolta può apparire fredda e staccata dal contesto delle vicende,  ma che le accompagna quasi come una eco,  e anche un desiderio di giustificare la presunta leggerezza dei giovani con pensieri non certo superficiali che si manifestano in certe frasi disseminate nel testo e messe in bocca ad uno o all’altro dei personaggi. Come  ad es. a pag. 86, parlando della morte del nonno di uno dei protagonisti, al termine di una storiella in cui tre saggi che prevedevano il futuro erano tristi perché avevano previsto il giorno della loro morte, commenta “ Chi conosce la propria fine può vivere aspettandola?” o come quando uno dei principali personaggi della storia si lascia andare a considerazioni del tipo :” Credo che l'uomo sia per natura destinato alla insoddisfazione, e qualsiasi impresa riesca a compiere, anche la più mirabolante, solo per qualche attimo ci fa sentire vivi. E' forse la condanna che ci ha inflitto Dio, il nostro vero peccato originale, quello che nessun battesimo può cancellare … ( pag . 174 ) o ancora quando a pag. 187 mette in bocca ad uno dei protagonisti la seguente riflessione “La vera sostanza della vita era tornare a casa stanchi dopo una giornata di duro lavoro, ma avere il privilegio di dimenticarsi di tutto grazie a chi si amava e ci amava, guardando abbracciati la televisione, ridendo e godendo delle piccole cose, dei propri figli.”  

Se questo era l’obbiettivo del romanzo e se Stefano Sarritzu lo abbia raggiunto ognuno lo scoprirà da se immedesimandosi nelle vicende narrate nel libro che, per la sua scorrevolezza e freschezza si fa leggere con molta facilità.